lunedì 14 aprile 2014

I misteriosi abitanti della “città bruciata” che sapevano fare i “cartoni animati”.


È uno dei siti archeologi più grandi e ricchi dell'Età del Bronzo del Medio Oriente. Shahr-i Sokhta, conosciuta come la “Città Bruciata”, è un insediamento antico di 5 mila anni collocato nella parte sudorientale dell'Iran, non lontano dai confini con Pakistan e Afghanistan. Tra i tanti reperti lasciati dai suoi misteriosi abitanti c'è anche il primo “cartone animato” della storia.




Per quasi millecinquecento anni, dal 3200 al 1800 a.C., la Città Bruciata, il cui nome originale è Shahr-i Sokhta, è stata la più grande e importante città della preistoria, i cui resti hanno attirato archeologi di tutto il mondo per quasi un secolo.
L’insediamento, posto nel sudest dell’Iran, non lontano dai confini con Pakistan e Afghanistan, si estendeva su una superficie di quasi 150 ettari.
Secondo i documenti, sono quattro le generazioni che hanno occupato la città e le sue rovine mostrano che una volta l’insediamento urbano era diviso in quartieri residenziali, aveva una zona industriale e un grande cimitero pieno di costruzioni commemorative.
Durante la sua esistenza, questo antico luogo è stato uno dei centri vitali della civiltà asiatica dell’Età del Bronzo, praticamente un importante centro di convergenza per molte delle civiltà preistoriche più importanti come quelle persiane, mesopotamiche, indiane e cinesi.
Nonostante sia un sito di grande interesse da parte dell’archeologia internazionale, ci sono ancora alcuni enigmi che circondano il grande sito archeologico. Innanzitutto, la città sembra comparire nel corso della storia dal nulla. Alcuni studiosi attribuiscono la sua fondazione alla cultura Jiroft, ma è questione molto dibattuta.
In secondo luogo, anche la sua scomparsa sembra essere improvvisa, ma anche catastrofica. Nel corso della sua storia, infatti, la città è stata incendiata per ben tre volte, cadendo definitivamente in rovina dopo l’ultimo incendio, quando fu deciso di non ricostruirla più. È possibile che il suo nome si correlato a questi eventi sconosciuti e devastanti.
Come riporta shahr-i-sokhta.ir, dato che gli scavi archeologici non hanno portato alla luce nessuna arma, fortezza difensiva e nemmeno mura di cinta per la difesa della città, molti studiosi ritengono che gli abitanti della città era un popolo pacifico e che non venivano coinvolti in guerre o battaglie di sorta.
Lo studioso britannico Orwell Stein fu il primo ad individuare il sito archeologico della Città Bruciata nel 1915. Successivamente, un team di archeologi italiani dell’Istituto Italiano per il Medio Oriente ha cominciato a scavare la zona nel 1960.
Tra le molte scoperte, quelle più significative riguardano lo stile architettonico degli edifici della città, come un tratto di muro spesso circa 90 cm, sulla cui superficie poggiavano pezzi orizzontali di legno coperti con fango e malta. Si pensa che tale tecnica servisse per rafforzare le strutture edilizie per far fronte ai terremoti, ma questo particolare architettonico non è ancora del tutto spiegato.



Sono stati rinvenuti anche i resti di molti laboratori industriali, per non contare tutti gli artefatti scoperti come piatti in pietra, terracotta e vari pezzi di stoffa. I ritrovamenti fanno pensare che gli abitanti di Shahr-i Sokhta fossero abili falegnami, cacciatori e tessitori. Inoltre, erano anche esperti in metallurgia, come suggeriscono i ritrovamenti metallici nel sito.
Uno degli artefatti più significativi portati alla luce dagli archeologi italiani nel 1983 è un calice decorato color crema sul quale si pensa sia stata realizzata la più antica animazione del mondo. Cinque immagini consecutive disegnate attorno al calice ritraggono una capra che si muove verso un albero e mangiarne le foglie.
Le immagini combinate sono considerate il più antico cartone animato conosciuto della storia. Il regista iraniano Mohsen Ramezani ha girato un documentario di 11 minuti intitolato The Tree of Life, nel quale ha utilizzato le illustrazioni del calice per mostrare il movimento della capra. L’immagine della capra è poi diventata il logo della ASIFA, l’Associazione iraniana per i Film d’Animazione.




Regista iraniano Mohsen Ramezani girato un documentario di 11 minuti , intitolato The Tree of Life , per il quale ha usato le illustrazioni sul calice per mostrare il movimento della capra selvatica verso un albero in cinque immagini consecutive . Questa immagine capra selvatica fu poi adottato come simbolo della ASIFA , l’Associazione di iraniani Film d’Animazione .
Nel dicembre del 2006, gli archeologi sono incappati in un altra scoperta di massima importanza: un occhio artificiale che le analisi hanno rivelato essere la protesi oculare più antica mai utilizzata dall’uomo. Il bulbo artificiale è stato trovato su uno scheletro femminile di 1,82 metri di altezza, molto più alta delle altre donne del suo tempo.
 Nonostante le numerose campagne di scavi e gli studi effettuati sul sito, le ragioni per cui la Città Bruciata sia caduta in maniera così improvvisa rimangono un mistero. I ricercatori, tuttavia, continuano a sperare che un giorno si possa incappare in qualche documento storico che li aitui a trovare il nome originale della città e cosa sia successo ai suoi abitanti dopo che l’ultimo incendio la rase al suolo.





 

L’antica città peruviana di Caral: un puzzle nel puzzle!.


Ci sono siti archeologici sul nostro pianeta che sfidano la logica e le certezze storiche acquisite nel corso degli studi. Uno di questi è certamente l'antica città di Caral, in Perù. Con i suoi 5 mila anni di età è considerato il più antico insediamento urbano dell'America precolombiana. Eppure, le sue strutture sono capaci di fare concorrenza alla mastodontica piramide di Giza in Egitto.




Caral è stato un grande insediamento della Valle di Supe, nella provincia di Barranca, Perù, contemporaneo alle grandi civilizzazioni dell’Egitto, della Mesopotamia, della Cine e dell’India.
Scoperta la prima volta nel 1905, ma portata definitivamente alla luce nel 1948 da Paul Kosok, Caral è considerata una delle più antiche città delle Americhe, forse dell’intero mondo.
Si stima che Caral sia stata abitata tra il 3000 e il 2000 a.C. dalla civiltà Norte Chico, un complesso di società precolombiane che comprendeva ben 30 centri urbani posizionati in quella che oggi è conosciuta come l’omonima regione del Perù centro-settentrionale. Si pensa che Caral possa rispondere alle domande circa l’origine delle civiltà andine ed allo sviluppo delle loro prime città.
I resti archeologici suggeriscono che Caral sia stato un grande e importante insediamento: il complesso urbano, tra centro e periferia, si estende su un’area estensione di 66 ettari, ricca di piazze ed edifici residenziali, una metropoli fiorita nello stesso periodo in cui esistevano le grandi piramidi d’Egitto. La città ospitava circa 3 mila persone, mentre i centri circostanti permettevano la presenza di 20 mila abitanti.




Il centro del complesso di Caral è costituito da uno spazio pubblico centrale enorme con sei tumuli piramidali di grandi dimensioni disposte intorno. Il più grande dei cumuli è alto 60 metri e misura 450 x 500 metri alla base. Tutti i tumuli sono stati costruiti entro uno o due periodi di intervento, il che suggerisce un elevato livello di pianificazione, generalmente associato con culture organizzate a livello statale.
La tecnologia utilizzata dai costruttori ha permesso alle piramidi di rimanere in buone condizioni, anche dopo 5 mila anni di esistenza, nonostante i frequenti terremoti registrati nella zone. Per erigere le strutture, infatti, i costruttori hanno utilizzato la tecnica dei “sacchi di shicra” (nella lingua indigena significava “tessuto”).
Come spiegato sul National Geographic, alcuni sacchi di fibra vegetale venivano riempiti di massi e quindi collocati all’interno dei muri di sostegno delle strutture, garantendo precisione e staticità all’edificio e rendendolo di fatto “antisismico”. La tecnica ha permesso agli abitanti di Caral di costruire piramidi alte fino a 70 metri.
La datazione al radiocarbonio dei sacchi di shicra ha permesso di stabilire con certezza che si tratta di strutture risalenti al 3 mila a.C. E questo è il primo enigma: come ha fatto la comunità di Caral, in un periodo tanto arcaico, a sviluppare una tecnologia tanto avanzata?
“Abbiamo a che fare con un sito che ci mostra per la prima volta le cose che accadevano in quel periodo in Sud America”, commenta sul New York Times il dottor Jonathan Haas, curatore di antropologia presso il Field Museum di Chicago.
I manufatti ritrovati nel sito suggeriscono che gli abitanti di Caral si dedicavano prevalentemente all’agricoltura, alla realizzazione di manufatti in cotone e all’arte, in particolare la musica.
In un incavo dei tempio principale sono stati ritrovati, infatti, 32 flauti realizzati con ossa di ali di pellicano. Inoltre, nel 2002 sono state trovate 37 cornette realizzate con ossa di cervo e di lama. Chiaramente, la musica ha giocato un ruolo importante nella loro società.

Non sono state trovate, invece, tracce di residui militari: niente battaglie, niente armi, niente corpi mutilati. Inoltre, non vi sono segni che la popolazione praticasse la schiavitù.
I ritrovamenti di Caral suggeriscono che si trattasse di un popolo pacifico, basato sul commercio. E qui viene il secondo enigma: che cosa è successo agli abitanti di Caral? Se la loro civiltà non è stata cancellata da una guerra, allora che fine hanno fatto?








venerdì 11 aprile 2014

Egitto: Due colossali statue egizie in mostra a Luxor.


Sono state presentate pochi giorni fa a Luxor due colossali statue di Amenhotep III. Dopo essere rimaste danneggiate per secoli, gli archeologi hanno ricomposto le due statue in quarzite rossa, situandole nel tempio funerario del faraone, loro sito originario.



Domenica scorsa, archeologi egiziani ed europei hanno svelato a Luxor due statue di Amenhotep III di dimensioni davvero notevoli.
I due monoliti in quarzite rossa sono state riposizionate nel loro sito originario che, secondo gli studiosi, era il tempio funerario del re sulla riva occidentale del Nilo.
Il tempio è già famoso per i due colossi di Memnon antichi di 3400 anni, due statue gemelle di Amenhotep III, il cui regno ha segnato l’apice della politica e della cultura della civiltà egizia.
Il sovrano, appartenente alla 18° dinastia, divenne re all’età di 12 anni, con la madre come reggente. Amenhotep ereditò un impero che si estendeva dall’Eufrate al Sudan, consolidando la sua posizione soprattutto attraverso l’arte diplomatica. Morì intorno al 1354 a.C., succedendogli Amenhotep IV, noto come Akhenaton.
“Il mondo era già a conoscenza dei due colossi di Memnon, ma da oggi in poi si parlerà dei quattro colossi di Amenhotep III”, ha dichiarato l’archeologo tedesco-armeno Hourig Sourouzian, direttore del progetto di conservazione del tempio.
Come riporta il Sydney Morning Herald, una statua raffigura Amenhotep III seduto in trono, mentre l’altra lo ritrae in posizione eretta. “Le statue erano in state ridotte in pezzi dalle forze distruttive della natura come terremoti, e più tardi dalle guerre e dal vandalismo. Sono rimaste danneggiate per secoli”, aggiunge Sourouzian.
La statua che raffigura il faraone seduto raggiunge il ragguardevole peso di 250 tonnellate, con un altezza pari a 11,5 metri. Ma come spiegano gli archeologi, la statua manca di una parte della corona, con la quale avrebbe raggiunto l’altezza di 13,5 metri.




Accanto alla gamba destra del faraone si erge una figura quasi completa di sua moglie Tiye, la quale indossa una grande parrucca e un lungo abito aderente. Accanto alla gamba sinistra, figurava la statua della regina madre Mutemwya, attualmente andata perduta.
Il trono è decorato su entrambi i lati con scene di vita dell’epoca di Amenhotep III, mostrando l’unificazione dell’Alto e Basso Egitto.
Il team di archeologi ha anche rinvenuto diverse parti di quella che dovevano essere altre statue del faraone e dei suoi parenti, tra cui una testa in alabastro molto ben conservata. “Si tratta di un pezzo unico e raro, dato che non ci sono molte statue di alabastro nel mondo”, spiega Sourouzian. Vicino alla testa è stata trovata una statua della principessa Iset, figlia di Amenhotep III.


Parco di Yellowstone: la scossa di terremoto più forte da 34 anni. Che succede?


Il Parco Nazionale di Yellowstone, il quale si trova adagiato su uno dei più grandi super-vulcani del pianeta Terra, domenica scorsa è stata colpita da una scossa di terremoto pari ad una magnitudo di 4,8 gradi. Si tratta del più forte terremoto registrato dal febbraio 1980.




Il tremore che ha scosso il Parco di Yellowstone domenica scorsa, che ha interessato la zona nordoccidentale della caldera, ha raggiunto una magnitudo pari a 4,8.
Nonostante gli esperti abbiano sottolineato che si tratta di un evento relativamente leggero rispetto alle statistiche sismiche del vulcano, si tratta della scossa di terremoto più forte degli ultimi 34 anni.
La scossa è stata registrata alle 06:34 nei pressi del Norris Geyser Basin ed è stata avvertita in un raggio di circa 37 chilometri, in particolare in due cittadine del Montana adiacenti agli ingressi del parco: Gardiner e West Yellowstone. Diverse persone hanno riferito di aver sentito il tremore accompagnato da un rombo sordo, simile al motore di un trattore con rimorchio.
Il parco nazionale di estende su un area di circa 9 mila chilometri quadrati, interessando parti del Wyoming, del Montana e dell’Idaho.
Come rivela il notiziario della Reuters, un team dell’US Geological Survey prevede di approntare una squadra esplorativa per raggiungere il Norris Geyser Basin e determinare se il terremoto possa aver alterato l’equilibrio geotermico di Yellowstone, il quale si manifesta in vari geyser, fango bollente e sorgenti termali.
Il terremoto di domenica, infatti, si è verificato vicino al centro di una zona di sollevamento che i geologi stanno seguendo da diversi mesi, motivati proprio dall’aumento dell’attività sismica, causata dal movimento verso l’alto della roccia fusa depositata sotto la crosta terrestre.
Tuttavia, i geologi hanno tenuto a precisare che nessuna indicazione fa pensare che la recente attività sismica sia il segnale di un’imminente eruzione della caldera di Yellowstone. Il vulcano, infatti, è interessato dai mille ai 3 mila terremoti l’anno.
L’ultima grande eruzione della caldera risale a circa 2 mila anni fa, quando la cenere espulsa dalla massiccia attività vulcanica coprì meta Nord America, causando l’uccisione di molte specie animali preistoriche. Secondo i ricercatori, il vulcano dovrebbe rimanere tranquillo per almeno alcune migliaia di anni, almeno si spera (con i vulcani non si sa mai)!

Bisonti in fuga

Qualche giorno prima del terremoto è stata segnalata l’incomprensibile fuga di moltissimi bisonti dal parco di Yellowstone, come se fossero impauriti da un pericolo imminente. Alcuni hanno poi collegato la fuga degli animali con la successiva scossa, confermando ancora una volta la capacità istintiva degli animali a presentire i pericoli naturali. 
Ecco il video della fuga.





giovedì 10 aprile 2014

Battute di pesca d’altura di 42 mila anni fa e mistero sulle barche dei primi australiani.

Secondo i ricercatori, il più antico amo da pesca mai trovato risale a 23 mila anni fa. Tuttavia, la scoperta di un archeologo dell'Australian National University dimostra che i nostri antenati avevano competenze marittime e tecniche di pesce incredibilmente sofisticate già 42 mila anni fa, antiche quasi il doppio di quanto finora creduto.




La pesca all’amo è uno dei passatempi più amati per tante persone del nostro tempo. Ma anche in antichità gli uomini si dedicavano a questa attività che richiede molta pazienza.
Sue O’ Connor, dell’Australian National University, ha scoperto la prova più antica del mondo di pesca d’altura per grossi pesci, dimostrando che 42 mila anni fa i nostri antenati australiani avevano già sviluppato la tecnica.
La prova consiste in una serie di materiali trovati durante una campagna di scavi in un sito di Timor Est. I risultati del lavoro di O’ Connor sono stati pubblicati sull’ultimo numero di Science.
I reperti provenienti dalla grotta Jerimalai provano che l’uomo di 42 mila anni fa era già in possesso di sofisticate competenze marittime e in grado di sviluppare la tecnologia necessaria per affrontare le traversate oceaniche per raggiungere l’Australia.
“Il sito che abbiamo studiato conteneva più di 38 mila lische di pesce databili a circa 42 mila anni fa”, dice O’Connor. “Il sito di Timor Est dimostra che i primi esseri umani moderni avevano competenze marittime incredibilmente avanzate. Erano esperti nel catturare vari tipi di pesce, difficili da pescare anche oggi, come il tonno ad esempio. Si tratta di una scoperta molto eccitante”.
Tra i reperti è stato trovato anche un grosso amo, il quale è considerato il più antico del mondo, ma che comunque risale ad un periodo successivo. “Abbiamo trovato un amo da pesce ricavato da una conchiglia, databile tra i 23 mila e i 16 mila anni fa”, spiega O’ Connor sul sito dell’Australian National University.
“Pensiamo si tratti del primo esempio conosciuto di amo da pesca e che dimostri che i nostri antenati erano altamente qualificati nel mestiere della pesca”.
Tuttavia, non si è ancora riusciti a comprendere in che modo gli antichi umani erano in grado di catturare i pesci in rapido movimento nelle acque profonde dell’oceano. “Non è chiaro quale metodo utilizzassero i pescatori per catturare il pesce nelle acque profonde”, continua O’ Connor.
“Dispositivi per la concentrazione dei pesci in luoghi chiusi sono abbastanza noti. Tuttavia, è evidente che queste persone utilizzassero tecnologa sofisticata per muoversi sull’oceano e per pescare in mare aperto”. Secondo gli archeologi, la comprensione dei metodi di pesca potrebbe far luce anche su come i primi abitanti dell’Australia abbiano raggiunto il continente.
“Abbiamo ritenuto per lungo tempo che 50 mila anni fa gli antichi colonizzatori dell’Australia siano stati in grado di percorrere centinaia di chilometri in mare aperto per raggiungere l’Australia. Siamo certi che abbiano usato barche perchè l’Australia è sempre stata separata dal sudest asiatico, fin dalla comparsa dell’uomo.
Tuttavia, quando osserviamo i mezzi d’acqua che gli australiani utilizzavano al momento del primo contatto con gli europei (17° secolo), notiamo che si tratta di imbarcazioni molto semplici, come zattere e canoe.
Come abbiano fatto gli antenati a sviluppare mezzi per navigare nell’oceano in un’epoca così precoce è sempre stato sconcertante. I nuovi reperti provenienti dalla grotta di Jerimalai potrebbero darci nuovi elementi per risolvere il puzzle”, conclude O’ Connor.

Il disastro naturale dell’età del Bronzo riportato in una stele cambia la storia dei faraoni.


Frammenti della Stele della Tempesta sono stati trovati nel terzo pilone del Tempio di Karnak, Tebe, tra il 1947 e il 1951. La stele risale al regno del faraone Ahmose, primo faraone della 18° dinastia. Una nuova traduzione sull'iscrizione riportata descrive pioggia intensa, oscurità è “il cielo in tempesta, senza sosta, con grida più forti di quelle delle masse”.




Due studiosi della University of Oriental Institute di Chicago sono convinti che i modelli climatici inusuali descritti nella Stele della Tempesta siano il risultato della catastrofica eruzione del vulcano di Thera (l’attuale isola di Santorini nel Mar Mediterraneo).
Dato che geologia e meteorologia hanno concluso che che eruzioni vulcaniche massive possono avere effetti significativi sulle condizioni del tempo atmosferico, l’esplosione di Thera ha probabilmente fatto sentire i suoi effetti anche in Egitto.
L’evento vulcanico, noto anche come “Eruzione Minoica”, fu una delle più grandi eruzioni accadute sulla Terra documentato storicamente. Secondo alcuni studiosi, l’eruzione fu così catastrofica da aver ispirato certi miti greci e forse, anche se meno probabile, le stesse idee di Platone su Atlantide.
La nuova traduzione suggerisce che il faraone Ahmose governasse l’Egitto in un momento molto più vicino all’eruzione di Thera, una scoperta che potrebbe portare ad un ripensamento sulla cronologia di un momento cruciale della storia dei grandi imperi dell’età del Bronzo. La ricerca, di cui da notizia lo stesso sito dell’università, è stata pubblicata sul Journal of Near Eastern Studies.
I frammenti della Stele della Tempesta furono trovati da un gruppo di archeologi francesi tra il 1947 e il 1951, e fanno parte di una stele risalente al regno del faraone Ahmose, il primo della 18° dinastia. I blocchi furono rinvenuti a Tebe, la moderna Luxor.
Se gli sconvolgimenti climatici riportati nella stele non descrivono le conseguenze della catastrofe di Thera, allora la sua datazione è contemporanea al regno di Ahmose, intorno al 1550 a.C. Se invece i fatti riportati dalla stele sono quelli causati dall’eruzione minoica, allora significa che il regno di Ahmose deve essere anticipato almeno di 50 anni.
Nel 2006, infatti, i test al radiocarbonio eseguiti su un albero di olivo sepolto sotto i residui di origine vulcanica, collocano l’eruzione di Thera al 1621-1605 a.C. Secondo gli studiosi, la datazione rivista del regno di Ahmose aiuta ad incastrare in maniera più logica le date di altri eventi del Vicino Oriente antico.
Ad esempio, si riallineano le date di eventi importanti come la caduta dei Cananei e il crollo dell’impero babilonese, spiega David Schloen, professore associato presso l’Istituto Orientale: “Questa nuova informazione potrebbe fornire una migliore comprensione del ruolo dell’ambiente nello sviluppo e nella distruzione degli imperi nel Medio Oriente”.
 Per molto tempo i ricercatori hanno considerato quanto riportato dalla Stele della Tempesta solo un racconto metaforico che descriveva l’impatto dell’invasione degli Hyksos.
Tuttavia, la traduzione di David Ritner indica definitivamente che il testo riporti la descrizione gli effetti degli eventi climatici causati dall’eruzione di Thera.
È importante sottolineare che il testo si riferisce a eventi che interessano sia la regione del delta che la zona dell’Egitto più a sud lungo il Nilo.
“Si trattava chiaramente di una tempesta straordinaria, molto diversa dalle forti piogge che l’Egitto riceve periodicamente”, spiega Ritner.




lunedì 7 aprile 2014

Natura: Il gamberetto gigante che visse nel Cambriano.


Si nutriva filtrando il plancton una delle prime creature marine di dimensioni relativamente grandi (fino a un metro) vissute circa mezzo miliardo di anni fa, quando sono apparse sul pianeta le prime forme di vita complessa. La scoperta dei resti fossili di Tamisiocaris borealis smentisce l'idea che i primi animali di grandi dimensioni fossero tutti predatori e offre indicazioni sulla complessità degli ecosistemi dell'epoca.




Uno degli animali marini più grandi del Cambriano, il periodo più antico del Paleozoico, fra i 540 e i 485 milioni di anni fa, durante il quale si svilupparono le prime forme di vita complessa, non era un predatore, ma si nutriva per filtrazione, in modo simile a molte balene di oggi. A dimostrarlo è l'analisi delle tracce fossili di Tamisiocaris borealis, un “gambero” gigante appartenente al gruppo animale, oggi estinto, degli anomalocaridi.

Gli anomalocaridi sono un phylum animale affine agli antropodi che comprendeva alcune delle specie più grandi del Cambriano, che arrivavano fino al metro di lunghezza. Dotati di lobi appiattiti che permettevano un nuoto simile a quello delle odierne razze, questi animali avevano un imponente apparato boccale sporgente dotato di spine, che permetteva di catturare prede di una certa dimensione, come i trilobiti. 

Dato che alcuni trilobiti fossili mostrano segni di ferite la cui conformazione corrisponde a quella della bocca degli anomalocaridi si pensava che tutti gli anomalocaridi fossero predatori al vertice della catena alimentare, ma il ritrovamento in Groenlandia di fossili diTamisiocaris borealis dimostra che la situazione era più complessa. 

Analizzando le tracce fossili dell'apparato boccale di T. borealis, Jakob Vinther, dell'Università di Bristol e colleghi, che firmano un articolo su Nature, hanno scoperto che le spine dell'apparato boccale erano dotate di dense file di spine ausiliarie lunghe e sottili. Per comprendere meglio le modalità di alimentazione di T. borealis, i ricercatori hanno creatoun'animazione 3D di questa appendice per studiare la gamma di movimenti che avrebbe potuto compiere. Per alimentarsi Tamisiocarisusava queste appendici come una rete a sciabica: dopo avrele estese, le ripiegava verso la bocca intrappolando nella fitta rete delle spine ausilairie molte piccole particelle, npon più grando di mezzo centimetro.


La scoperta, inoltre, mostra la varietà di specie di anomalocaridi del Cambriano e offre ulteriori indicazioni sugli ecosistemi del tempo, sottolineandone in particolare la produttività: “Nutrirsi filtrando l'acqua per catturare particelle molto piccole mentre si nuota richiede molta energia, e quindi molto cibo”, ha detto Vinther.



Acciaio straordinario prodotto nella Scozia di 2500 anni fa.


Uno studio eseguito su alcuni manufatti recuperati nel sito di Broxmouth, Scozia, risalente all'Età del Ferro, ha rivelato che il primo uso dell'acciaio nelle isole britanniche è da collocarsi a circa 2500 anni fa. Secondo gli studiosi, le analisi suggeriscono che i mastri ferrai scozzesi avevano sofisticate competenze metallurgiche.




Nel 1970, in una fortezza dell’Età del Ferro nei pressi di Broxmouth, furono rinvenuti una serie di manufatti metallici prodotti tra il 490 e il 375 a.C.
Quarant’anni dopo, nel 2008, un nuovo progetto di studio è stato istituito presso l’Università di Bradford, al fine di approfondire i risultati dello scavo.
A causa delle cattive condizioni dei reperti, non è stato possibile stabilire con certezza se gli oggetti fossero strumenti, armi o manufatti per qualche altro scopo.
Il nuovo studio, pubblicato dalla Società degli Antiquari di Scozia, prevedeva un’approfondita analisi metallurgica dei reperti. A conclusione della ricerca, gli scienziati hanno stabilito che i manufatti di Broxmouth furono forgiati con un acciaio ad alto tenore di carbonio.
“Il processo di fabbricazione dell’acciaio richiede una vasta conoscenza, abilità e maestria”, spiega Gerry McDonnell, esperto di metalli archeologici dell’Università di Bradford. “Si tratta di un esempio precoce della produzione di acciaio, che ci dice molto sulle persone che una volta occupavano il sito”.
McDonnell ritiene che reperti così avanzati siano il risultato di una comunità altamente organizzata, nella quale si tramandavano competenze complesse e raffinate.
Come riporta il sito della BBC, il Segretario di Gabinetto per la Cultura Fiona Hyslop ha detto che Broxmouth occupa posto speciale nella storia dell’archeologia scozzese, essendo una miniera di moltissime scoperte interessanti.
La fortezza di Broxmouth è stata in uso dall’età del Ferro fino al periodo dell’occupazione romana, quasi mille anni dopo.
Un’intera generazione di archeologi scozzesi ha studiato e si è formata sul sito di Broxmouth, il quale si è conquistato il titolo di uno degli scavi più completi sull’Età del Ferro della Gran Bretagna.
Il sito conserva alcune evidenze di attività umana risalente al 3 mila a.C. La prima struttura della fortezza era circondata da una trincea palizzata. Il recinto fortificato fu realizzato nel 500 a.C. e ricostruito più volte nel corso dei successivi 200 anni. Infine, la fortezza ha avuto una recinsione di almeno quattro mura concentriche, fossati e cuna complessa serie di porte d’ingresso.


Scoperta una "piccola Pompei a 70 km a nordest di Venezia.


Venerdì scorso un gruppo di archeologi ha annunciato la scoperta di un antico complesso funerario a circa 70 chilometri a nordest della città di Venezia. Si tratta del più grande e meglio conservato sito archeologico scoperto in Italia dal 19° secolo.




Certamente la città romana di Pompei è il sito archeologico più conosciuto al mondo, consentendo ai suoi visitatori di assaporare la vita quotidiana di quasi 2 mila anni fa.
A farle concorrenza potrebbe essere un complesso funerario romano ottimamente conservato portato alla luce da un gruppo di archeologi.
Situato a circa 70 chilometri a nordest di Venezia, il sito rappresenta il più grande sito dell’antica Roma scoperto in Italia nell’ultimo secolo e, come Pompei, è stato preservato da un disastro naturale.
Il sito si trova fuori le antiche mura della colonia romana di Iulia Concordia, oggi parte del comune di Concordia Sagittaria. In maniera simile a Pompei, sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., la colonia romana fu colpita da una catastrofica inondazione avvenuta nel 5° secolo d.C., seppellendola sotto una coltre di detriti e sedimenti che ne hanno garantito la perfetta conservazione nei secoli.
Rimasto inaccessibile per quasi 1500 anni, il complesso comprende un podio alto quasi due metri e largo sei, con i resti di due eleganti sarcofagi nella parte superiore. Come riporta Ansamed, lo scavo è stato finanziato dalla Regione Veneto grazie ai fondi dell’Unione Europea, sotto la direzione della Soprintendenza veneta per i Beni Archeologici.



sabato 5 aprile 2014

Luoghi: La città sommersa di Baia: la piccola Atlantide dell’Antica Roma.


A soli 30 minuti a nordovest da Napoli, si trova uno dei siti archeologici più affascinanti dell'antica Roma: la città sommersa di Baia. Nel territorio di Baia insistono numerose vestigia dell'età romana; tuttavia parte del complesso archeologico rimane sotto il livello del mare, sprofondato a causa di fenomeni bradisismici.





Baia è stata una delle città più importati dell’antica Roma.
Utilizzata come località balneare dai romani, la città si affacciava sul Golfi di Pozzuoli dell’allora Campania Felix.
Certamente era un luogo destinato agli imperatori e ai ricchi romani, i quali trascorrevano il loro tempo libero nelle lussuose ville e le sontuose terrazze che affacciavano sul golfo.
In alcuni periodi, Baia, costruita durante il periodo dell’imperatore Claudio, divenne più famosa di Pompei, Ercolano e Capri. E come queste, essa fu città di scandali, corruzioni e tentazioni edonistiche, secondo quanto riportano i documenti antichi.
Seneca, uno dei più importanti filosofi dell’epoca, definiva Baia il “Villaggio del Vizio”, mentre Ovidio, poeta romano, descriveva la cittadina come un “luogo appropriato per fare l’amore”. Ad ogni modo, Baia era famosa soprattutto per i suoi bagni prestigiosi e le sorgenti termali naturali.
Oggi, però, Baia non è più un parco giochi per gli imperatori romani, ma un vero tesoro per gli appassionati di esplorazioni subacquee. La cittadina, infatti, si trova sommersa sotto pochi metri d’acqua, con tutte le sue ville, statue e strade ancora visibili.
Lo sprofondamento di Baia si deve al fenomeno del braditismo. 
Essendo collocata nell’aera vulcanica dei Campi Flegrei, il suolo su cui poggia Baia è andato su e giù per quasi 2 mila anni. Alla fine, il terreno si è tanto abbassato da finire sotto il livello del mare.
L’ambiente sottomarino ci riporta indietro nel passato: tra i reperti meglio conservati ci sono le statue in marmo, la strada principale Herclanea e il circostante complesso termale.







Il primo recupero delle vestigia archeologiche di Baia è avvenuto nel 1920, quando nel corso di alcuni lavori per l’ampliamento delle banchine vennero rinvenute le sculture, alcuni elementi architettonici e alcune insegne imperiali.
Nel 1940, alcune fotografie aeree scattate dal pilota Raimondo Buacher fornirono l’ulteriore prova della zona archeologica sommersa nelle acque poco profonde di fronte al Lago di Lucrino. Nonostante il notevole interesse sollevato dalla scoperta, la prima indagine sottomarina di Baia non avrà luogo fino al 1960, le quali contribuirono alla composizione della mappa della città sommersa.
Interessanti reperti sono stati individuati anche in prossimità di Punta Epitaffio, a circa 6 metri di profondità: una strada lastricata fiancheggiata da edifici e statue. Inoltre, a circa 400 metri dalla costa attuale, sono stati ritrovati numerosi pilatri di cemento, i quali confermano la posizione della costa in antichità.
Attualmente, i resti archeologici sommersi fanno parte del Parco Sommerso di Baia, un area marina protetta istituita nel 2002 con decreto congiunto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e di quello per i Beni e le Attività Culturali, l’area rappresenta, assieme al Parco sommerso di Gaiola, un esempio unico in ambito Mediterraneo di protezione archeologica e naturalistica subacquea.
Lo straordinario valore di tali siti è dato sia dal notevole stato di conservazione dei reperti archeologici, oltre che dal loro valore storico archeologico oggettivo. Il luogo è straordinariamente suggestivo, e fa di questo tratto dei fondali una piccola Atlantide romana.




L’enigma irrisolto degli “Idoli Oculari” della Mesopotamia.


Nonostante risalgano a più di 5 mila anni fa, gli Idoli Oculari della Mesopotamia hanno un design straordinariamente moderno: semplice e astratto. Le enigmatiche figurine, che rappresentano figure antropomorfiche con un corpo trapezoidale e grandi occhi, sono ancora fonte di interessanti questioni non ancora chiarite, a partire da chi le ha prodotte e chi o cosa rappresentano.



Tell Brak è un grande sito archeologico a 4 km dalla riva destra del Giaghgiagha, affluente del Khābūr, sulla carovaniera che congiungeva la Siria con l’Anatolia e la Mesopotamia.
La regione, centro importante di commercio, alla fine del III millennio era dominata dalla dinastia di Akkad a cui successero la III dinastia di Ur ed in seguito quelle assire.
Il periodo più antico è quello preistorico, rappresentato da un piccolo insediamento risalente al 6 mila a.C., dove sono stati trovati materiali della tarda cultura neolitica denominata Halaf.
L’occupazione del sito è durata fino al 4° millennio a.C., epoca considerata proto-storica dagli studiosi e al quale si fa risalire uno dei ritrovamenti più importanti del sito: un tempio dedicato ad una divinità sconosciuta.
Il tempio, costruito tra il 3200 e il 3500 a.C., risultava privo di fondamenta, poggiando direttamente su una piattaforma che incorporava tre precedenti edifici spianati e riempiti di mattoni. L’accesso al tempio avveniva per mezzo di una scalinata che, forse, circondava il lato orientale della piattaforma.
La distruzione del complesso avvenne all’inizio dell’epoca sumerica, a causa di qualche scorreria. Durante gli scavi, eseguiti nel 1937-38 dall’archeologo britannico Sir Max Mallowan, vennero rinvenuti centinaia di piccoli idoli caratterizzati da uno o più paia di occhi intagliati, a causa dei quali il tempio venne denominato “Tempio dell’occhio”.
Gli idoli hanno dimensioni variabili, dai 3 ai 6 centimetri di altezza, e sono realizzati in alabastro bianco o nero. Rappresentano un unicum, infatti non sono note raffigurazioni parallele, sia in Siria che in Mesopotamia. Secondo i ricercatori, scoprire l’origine e il significato degli idoli potrebbe aiutare a rispondere a importanti domande sulla storia della regione.
Come spiega il sito del Fitzwilliam Museum dell’Università di Cambridge, il gran numero di idoli oculari ritrovato e le loro dimensioni suggerisce che siano stati lasciati nel tempio come ex voto per ringraziare gli dei di qualche favore ricevuto. Le figurine, infatti, potrebbero rappresentare le persone beneficiate dalla grazia.
La decorazione degli idoli, infatti, varia e i ricercatori pensano si tratti di personalizzazioni. Gli idoli sono stati raggruppati in cinque tipologie: alcuni hanno un solo paio di occhi, con o senza decorazione; alcuni hanno tre, quattro o sei occhi; altri hanno piccole figure di bambino scolpite sulla fronte e in altri ancora gli occhi sono stati forati di traverso.


Inoltre, nella decorazione interna del tempio è molto frequente la figura dell’occhio, suggerendo che si veniva considerato come un potente simbolo magico e religioso. Al momento, comunque, la simbologia e il motivo per cui venivano scolpite le statue rimane ancora argomenti di dibattito.
La notizie più triste di questo affascinante enigma del passato è la situazione politica della Siria. Gli idoli oculari di Tell Brak sono infatti inseriti nella “Lista Rossa d’emergenza”, nella quale sono catalogati tutti i beni culturali siriani a rischio.
Diversi siti archeologici in Siria sono stati danneggiati a causa di bombardamenti. Molti dei manufatti antichi, poi, vengono saccheggiati e distrutti. Si tratta di una situazione simile a quella che ha riguardato l’Iraq pochi mesi fa, dove nel corso delle rivolte è andato perduto buona parte del patrimonio archeologico dell’antica Mesopotamia.
Così avverte la comunità museale internazionale:
«Musei, case d’asta, mercati d’arte e collezionisti sono incoraggiati a non acquistare oggetti provenienti dalla Siria senza aver esaminato attentamente e accuratamente la loro origine e tutta la documentazione legale. Data la grande varietà di oggetti, stili e periodo, la Lista Rossa d’Emergenza è lungi dall’essere esaustiva. Ogni bene culturale proveniente dalla Siria dovrebbe essere sottoposto ad un esame dettagliato e a misure precauzionali».
Purtroppo, la distruzione dei reperti antichi è una parte molto triste della storia umana. La perdita e il danneggiamento di reperti del passato compromettono gravemente la possibilità di ricostruire la verità sui nostri antenati e sul tipo di vita da essi condotto su questo pianeta in tempi preistorici. Un popolo senza storia è come un albero senza radici. È destinato a morire!