martedì 11 marzo 2014

Ha' amonga 'a Maui: La porta megalitica costruita dagli dei.

Nell'Oceano Pacifico, su una superficie di circa 748 km², si trovano le 150 isole che formano il Regno di Tonga, una monarchia costituzionale dell'Oceania, con capitale Nuku'alofa . Su una delle sue isole si erge uno dei più enigmatici monumenti megalitici del Pacifico, un trilite chiamato Ha'amonga 'a Maui.




Il Regno di Tonga è uno stato sovrano insulare dell’Oceania, il cui territorio è composto da un arcipelago di 150 isole e isolotti, 40 delle quali abitate , situato nell’Oceano Pacifico meridionale, a circa un terzo della distanza tra Nuova Zelanda e Hawaii. Si trova a sud delle Samoa e a est delle Figi.
Quasi 2/3 degli abitanti vivono nell’isola più grande del regno, Tongatapu. Sebbene molti tongani si siano trasferiti nell’unico vero centro urbano dell’arcipelago, Nuku’alofa (dove lo stile di vita locale si mescola a quello europeo), la vita del villaggio e i legami familiari rimangono molto importanti nella cultura tongana.
Lo stato di Tonga è detto anche “Isole degli Amici”, per via del carattere cordiale degli abitanti all’arrivo dei primi esploratori.
La data della prima occupazione delle isole è oggetto di discussione, come la datazione della maggior parte dei siti archeologici presenti sul suo territorio. Tuttavia, l’opinione tradizionale è che l’arcipelago fu abitato fin dall’inizio del II millennio a.C. da tribù provenienti da Samoa, individuando nell’isola di Tongatapu il sito occupato più antico, dove si erge l’enigmatico monumento denominato Ha’amonga ‘a Maui.
Il primo popola ad insediarsi sull’isola si ritiene sia quello dei Lapita, una civiltà originale, soprattutto per le decorazioni su terracotta, associata alle popolazioni austronesiane che avevano colonizzato l’Oceania lontana partendo dalla cosiddetta Oceania vicina . La datazione col carbonio 14 rivela che i più antichi siti Lapita risalgono a circa 3500 anni anni fa .
I coloni Lapita fabbricavano terracotta incisa con inclusioni rosse, utilizzando utensili d’ossidiana provenienti dai vulcani melanesiani . Le decorazioni delle ceramiche lapita sono estremamente ricche e varie.
Ricerche recenti sulle decorazioni mostrano che esse rappresentavano, probabilmente, l’universo visto attraverso i loro occhi: il mondo “dell’alto”, quello degli dei o degli antenati divinizzati; al centro il mondo dei viventi e infine il “mondo del basso”, quello dei morti. Gli astri (sole, luna…) sembrano rivestire un’importanza particolare nelle credenze di
questi navigatori.
L’antica capitale di Tonga era la città di Mu’a, il cui nome, secondo alcuni ricercatori, ricorda quello del continente perduto di Mu (identificata con Atlantide), considerato dall’archeologia convenzionale come un luogo mitologico.
A circa 30 km da Nuku’alofa, la capitale di Tongatapu, si trova l’enigmatico Ha’amonga ‘a Maui, un trilite megalitico costituito da tre blocchi calcare corallino, alto 5,2 m e largo 5,8 m. Il peso delle due pietre erette è pari a circa 30-40 tonnellate ciascuna, con il lato superiore caratterizzato da due incavi adattati per ospitare l’architrave.
Molto spesso è stata evidenziata la somiglianza di Ha’amonga ‘a Maui con il sito di Stonehenge. Tuttavia, il sito megalitico del Regno Unito presenta molte più strutture e gli architravi sono poggiati sulle pietre erette, mentre quelle del trilite di Tongatapu presentano delle fessure per l’alloggiamento.
Secondo l’archeologia convenzionale, Ha’amonga ‘a Maui è stato costruito agli inizi del 13° d.C. sotto il governo di re Tui Tonga Tuitātui, probabilmente come portale di accesso per il suo complesso reale di Heketā.



Le cronache orali più recenti di Tonga, interpretano il trilite come un monumento per simboleggiare la fratellanza dei figli di Tuitātui-Lafa (pietra orientale) e Talaihaapepe (pietra occidentale).
Come spiega Acient Origins, nei miti popolari più antichi, invece, si fa risalire la costruzione di Ha’amonga ‘a Maui al semidio Maui, dato che le pietre erano davvero troppo pesanti per la forza degli umani. Maui avrebbe prelevato le pietre da una cava dell’Isola di Wallis, trasportandole a Tongatapu con la sua canoa gigante.
Maui era parte di un leggendario gruppo di semidei, presente nella maggior parte dei miti delle isole del pacifico. C’erano quattro fratelli, tutti con il nome di Maui e dagli straordinari poteri sovrannaturali. I quattro fratelli sono considerati gli iniziatori dei popoli che hanno colonizzato le isole Tonga, le Hawaii, Tahiti e la Nuova Zelanda.
Sollecitato dall’ipotesi che Stonehenge potesse essere stato un osservatorio astronomico, nel 1967, il re di Tonga Tāufaāhau Tupou IV, applicò tale teoria anche al trilite di Ha’amonga ‘a Maui, spiegando che il monumento servisse per segnare la posizione del sole nei solstizi e negli equinozi, ma non esiste nessuna prova a sostegno dell’affermazione del sovrano.
Se sia stato costituito da semidei, o più semplicemente da un re mortale del Tonga, Ha’amonga ‘a Maui è ancora oggetto di numerose questioni irrisolte, tra le quali la più importante è certamente il perché della sua costruzione.
La presenza di triliti in tutto il mondo, tra cui la famosissima Stonehenge, costringe ancora una volta a chiedersi come mai i nostri antenati, in tutto il globo terrestre, avessero così in alta considerazione questo tipo di costruzione.



lunedì 10 marzo 2014

Mondo sommerso: I delfini si chiamano tra loro con un nome.




Un team di scienziati dell’Università di St. Andrews, Scozia, ha fatto una scoperta davvero stupefacente. La ricerca ha rivelato che i mammiferi marini utilizzano un ‘fischio’ unico per identificare i singoli individui.
Nello studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences,  è riportato gli animali hanno risposto alla chiamata anche quando il suono è stato prodotto dagli scienziati.
“I delfini vivono in un ambiente tridimensionale, in mare aperto, senza alcun punto di riferimento e hanno bisogno di stare insieme come gruppo”, spiega Vincet Janik, del Sea Mammal Research Unit. “Questi animali vivono in un ambiente in cui hanno bisogno di un sistema molto efficace per rimanere in contatto”.
In realtà, da lungo tempo si era sospettato che i delfini utilizzassero i loro fischi distintivi più o meno allo stesso modo in cui gli esseri umani utilizzano i nomi. Ricerche precedenti avevano rivelato che questi suoni erano utilizzati di frequente e i delfini dello stesso gruppo erano in grado di impararli e utilizzarli.


Ma lo studio dei ricercatori scozzesi ha messo in evidenza, per la prima volta, il modo in cui i delfini rispondono al suono del loro ‘nome’. Gli scienziati, infatti, hanno registrato i suoni emessi da un gruppo di delfini selvatici, catturando la firma singola di ogni individuo. Hanno poi ritrasmesso i suoni nell’oceano grazie a degli altoparlanti subacquei.
“Abbiamo riprodotto il ‘fischio firma’ di ogni individuo del branco, abbiamo riprodotto anche altri fischi del loro repertorio e poi fischi di altri individui che gli animali non avevano mai visto nella loro vita”, ha spiegato il dottor Janik.
I ricercatori hanno scoperto che i delfini hanno risposto solo quando hanno sentito fischiare il loro nome, rispondendo con un altro fischio. Il team sostiene che gli animali si comportano come gli esseri umani: quando sentono il loro nome, rispondono.
Secondo il dottor Janik, questa abilità è stata probabilmente sviluppata per aiutare gli animali a stare insieme in un gruppo nel loro vasto habitat subacqueo. “La maggior parte delle volte non riescono a vedersi l’un l’altro”, continua il ricercatore, “non possono utilizzare l’odorato sott’acqua, che è un senso molto importante nei mammiferi per il riconoscimento, e inoltre non hanno nè nidi, nè tane dove attendere gli altri componenti del branco”.
I ricercatori spiegano che questa è la prima volta che è stato osservato questo comportamento in un animale, anche se altri studi hanno suggerito che alcune specie di pappagallo possono utilizzare i suoni per identificare gli individui del loro gruppo.
Infine, il dottor Janik ha detto che la comprensione di come questa abilità si sia evoluta in diversi gruppi animali, potrebbe dirci di più su come la comunicazione si sia sviluppata negli esseri umani.


Luoghi: Le sacre grotte di Piyang, uno dei luoghi più misteriosi della terra.


Le tradizioni locale fanno risalire l’utilizzo delle grotte ad un periodo molto antico, quando le divinità abitavano sulla terra. Per questo motivo, molto templi sono stati costruiti nelle vicinanze e tutta la regione è ritenuta sacra dai nativi.




Il Tibet, uno dei luoghi più misteriosi e sacri dell’umanità, conserva numerosi segreti di un remoto passato, normalmente inaccessibili ai semplici turisti.
Tra questi, ci sono le Grotte di Piyang, uno dei siti archeologici più importanti del Tibet, situate nella parte occidentale del paese, in prossimità del Sacro Monte Kailash.
“A Piyang ci sono più di 1100 grotte di varie forme e dimensioni, alcune delle quali sono chiaramente siti abitativi, mentre altri sono probabilmente grotte utilizzate per la meditazione”, spiega l’archeologo americano Mark Aldenderfer, professore presso l’Università della California.
I lavori di scavo eseguiti nel sito di Piyang, in collaborazione con un gruppo di archeologi cinesi, sono stati il tentativo di dimostrare la veridicità delle fonti documentarie.
“Avendo una conoscenza sull’antico biddismo tibetano così scarsa, siamo stati fortunati a poter collaborare con Huo Wei e Li Yongxian, due archeologi del dipartimento di storia della Sichuan Union University a Chengdu. Per quanto ne so, è la prima collaborazione tra archeologi cinesi e occidentali in Tibet”, racconta Aldenderfer.
Le Grotte di Piyang non sono l’unico complesso oggetto di esplorazione. Molti altri siti simili sono sparsi in tutto l’enigmatico altopiano del Tibet. Alcuni sono stati scolpiti dalle forze naturali, altri sono evidentemente di origine artificiale, ma sicuramente sono tutti molto antichi.
Gli esseri umani hanno cominciato ad abitare in questa zona del Tibet ben 21.000 anni fa, quindi è molto probabile che ci siano numerosi artefatti sepolti nelle grotte tibetane, nei tunnel e in altre zone misteriose ancora inesplorate.
Le tradizioni locale fanno risalire l’utilizzo delle grotte ad un periodo molto antico, quando le divinità abitavano sulla terra. Per questo motivo, molto templi sono stati costruiti nelle vicinanze e tutta la regione è ritenuta sacra dai nativi.
E’ possibile ammirare molte pitture preistoriche, murales, sculture e nicchie decorate con pregevoli dipinti. Ma il vero oggetto del desiderio degli archeologi è il ritrovamento di un qualche antico documento scritto, che al momento nessuno è stato ancora in grado di individuare.
Il complesso di Piyang copre una superficie di 10 chilometri quadrati, ed è estremamente complessa la sua esplorazione. ”Stiamo solo cominciando a capire la vera importanza delle grotte sacre del Tibet”, spiega Aldenderfer.
“La vastità della regione richiede uno sforzo enorme. Inoltre, il fatto che sia una terra ritenuta sacra crea non pochi problemi per l’accesso ai siti di interesse archeologico. Una volta le grotte erano meta di pellegrinaggi, ma oggi il sito è chiuso al pubblico”.
Solo in tempo e una buona dose di pazienza permetterà agli archeologi di svelare i segreti delle Sacre Grotte di Piyang.


Scoperti nove nuovi rotoli delle frotte di Qumran.


I nuovi reperti erano nascosti dentro alcuni filatteri ritrovati negli scavi di sessant'anni fa ma mai aperti. L'annuncio è stato dato nel corso di in un convegno alla Facoltà di Teologia di Lugano.




Sono rimasti nelle grotte del deserto per secoli. E poi nascosti per altri sessant’anni dentro quelli che erano stati catalogati solo come dei tefillin, i filatteri che l’ebreo osservante indossa per la preghiera.
Si spiega così la sensazionale scoperta di nove nuovi rotoli di Qumran, la località sul Mar Morto teatro a metà del Novecento del ritrovamento di centinaia di frammenti di testi della Torah e della letteratura giudaica di duemila anni fa.
Rotoli conservatisi grazie al microclima di un complesso di grotte del deserto – abitate da una comunità intorno alla quale esistono teorie diverse – e divenuti un punto di riferimento importante negli studi delle scienze bibliche.
Ora dunque ci sono nove nuovi rotoli di Qumran con cui fare i conti. Il ritrovamento è recentissimo ed è stato annunciato nei giorni scorsi al seminario di ricerca internazionaleLa storia delle grotte di Qumran, organizzato dalla Facoltà di Teologia di Lugano e coordinato dal professor Marcello Fidanzio.
A darne notizia è stato lo stesso archeologo Yonatan Adler, dell’Università israeliana di Ariel, che si è accorto della presenza dei rotoli dentro ai tefillin, che erano custoditi a Gerusalemme nella sezione dell’Israel Museum dedicata ai reperti di Qumran.
Si tratta di materiale proveniente dalle grotte 4 e 5, quelle che negli scavi condotti nel 1952 sotto la supervisione dell’archeologo domenicano francese Roland de Vaux videro emergere il numero maggiore di manoscritti.
Per il momento i tre tefillin in questione sono stati indagati dall’Israel Antiquities Authority con una particolare tecnica fotografica che ha permesso di stabilire che all’interno di ciascun astuccio vi sono tre rotoli. Si tratta comunque di materiale fragilissimo e quindi l’operazione di apertura richiederà adesso particolari cautele e un certo lasso di tempo.
C’è da scommettere che ci sarà chi coglierà al volo l’occasione per rilanciare la letteratura che vorrebbe Qumran come depositaria di misteri destinati a riscrivere la storia degli inizi del cristianesimo.
In realtà, almeno dai tefillin non c’è da aspettarsi sorprese del genere: dovrebbero contenere testi tradizionali della Torah, probabilmente versetti del Deuteronomio. Ma dal punto di vista dell’archeologia biblica proprio per questo si tratta di materiale di grandissimo valore.
“La nuova scoperta è la dimostrazione di come quella su Qumran sia una ricerca non ancora conclusa”, commenta il professor Marcello Fidanzio. “Per mille ragioni, soprattutto politiche, lo studio dei materiali ritrovati e la pubblicazione dei risultati è tuttora in corso”.
“Ora certamente la curiosità più grande è sapere nel dettaglio che cosa contengono i nuovi rotoli. Ma un altro aspetto importante è il fatto che negli oltre sessant’anni trascorsi dagli scavi nelle grotte le tecnologie utilizzate dall’archeologia hanno compiuto grandi passi in avanti. Questo forse ci permetterà di capire qualcosa di più attraverso i nuovi rotoli”.


domenica 9 marzo 2014

Il mistero irrisolto della mummia della signora di Dai.


Quando si parla di mummie, immediatamente salta alla mente la pratica funeraria in uso presso l'antico Egitto. Eppure, forse non tutti sanno che i corpi meglio conservati provengono dalla Cina antica. La mummia della Signora di Dai, antica di 2100 anni, è uno degli esempi più emblematici. L'incredibile livello di conservazione ancora sconcerta e stupisce gli scienziati di tutto il mondo.



Nel 1971, in piena Guerra Fredda, un gruppo di operai era intento a scavare un rifugio antiaereo nei pressi della città di Changsha, quando si sono imbattuti in una tomba della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.).
All’interno trovarono oltre mille reperti in perfetto stato di conservazione, assieme alla tomba di Xin Zhui, (cinese: 辛追; morta nel 163 a.C.), nota anche come Signora di Dai o marchesa di Dai, moglie di Li Cang (利 苍), il marchese di Dai e governatore del feudo imperiale di Dai.
Quando aprirono la tomba, gli operai scoprirono i resti della donna eccezionalmente conservati, accanto a centinaia di manufatti e documenti preziosi. Il corpo misurava 1,54 m e pesava 34.3 kg. Nonostante fosse rimasta sepolta per più di 2100 anni, il corpo risultava relativamente intatto, mantenendo un certo grado di umidità.
Il tessuto molle sotto le pelle era ancora morbido ed elastico, e le articolazioni risultavano ancora mobili. Le ciglia e i capelli erano al loro posto, e la membrana del timpano dell’orecchio sinistro era praticamente intatta. Incredibilmente, il sangue della defunta era ancora presente nelle vene.
Appena fu rimossa dal sepolcro, l’ossigeno subito compromise la conservazione della mummia, infatti lo stato in cui si mostra oggi non riflette con precisione quello in cui fu trovata. Il corpo e gli oggetti furono presi in custodia dal Museo Provinciale di Hunan. Quando gli scienziati condussero la prima autopsia, rimasero sorpresi nel constatare che il corpo aveva caratteristiche simili a quelle di un individuo morto da poco tempo.
Le analisi rivelarono che gli organi interni erano ancora intatti, perfino i polmoni. Coaguli di sangue furono trovati nel cuore, sintomo che la Signora Dai era morta a seguito di un attacco di cuore intorno ai 50 anni, forse connesso ad una serie di disturbi e malattie, come il diabete, la pressione alta, colesterolo alto, malattie del fegato e calcoli biliari.


Come sottolinea Ancient Origins, probabilmente, la marchesa è stata vittima della sua obesità, dalla mancanza di esercizio fisico e da una dieta troppo indulgente.
Durante lo studio degli organi interni, i patologi hanno trovato nello stomaco e nell’intestino della donna 138 semi di melone non digeriti. Poichè i semi di melone richiedono circa un’ora per essere digeriti, gli scienziati hanno concluso che la signora deve essere morta poco dopo aver mangiato i frutti.
Le cronache raccontano che la Signora Xin Zhui visse una vita stravagante. Alla sua corte erano presenti musicisti e poeti, tradizionalmente associati alla raffinatezza e all’intelletto. Gran parte del suo abbigliamento era fatto di seta e altri tessuti pregiati. Essendo una donna nobile, la marchesa aveva accesso ad una varietà di cibi riservati per la famiglia reale e ai membri della classe dirigente (certe cosa non cambiano mai!), ai quali certamente la donna indulgeva con grande piacere.
All’interno della camera sepolcrale gli archeologi hanno trovato più di mille oggetti preziosi, tra cui tessuti, cosmetici, gioielli e varie prelibatezze culinarie, forse quelle più gradite alla donna. L’opulenza di quanto trovato ha rivelato un mondo in cui i ricchi e i potenti desideravano vivere per sempre, tristi di abbandonare i piaceri terreni di cui potevano godere in vita.


Elevato stato di conservazione

Ciò che più ha interessato i ricercatori è l’elevata qualità di conservazione della mummia, alla quale si cerca di dare una spiegazione. Il corpo della Signora di Dai fu trovato in un sarcofago a tenuta d’aria, con quattro strati esterni. Il corpo era avvolto in 20 strati di seta e trovato in 80 litri di una sostanza liquida leggermente acido e contenente magnesio.
La parte superiore del sarcofago era stata coperta con uno spesso strato di argilla supplementare. Nessuna sostanza sarebbe stata in grado di entrare o uscire dalla tomba sigillata. I batteri che causano la decomposizione intrappolati all’interno, sarebbero morti rapidamente a causa della mancanza di ossigeno. Il risultato di un tale meticoloso lavoro è stata la perfetta conservazione del corpo della marchesa, grazie alla creazione di un ambiente quasi sterile.
Sebbene le analisi sembrano risolvere la questione su come sia stato possibili ottenere questo incredibile stato di conservazione, rimane il fatto che oggi non si sarebbe in grado di replicare la tecnica con metodi moderni. Inoltre, rimane sconosciuta l’origine del fluido trovato all’interno del sarcofago.
In realtà, altre tombe contenenti mummie conservate in modo simile sono state trovate a poche centinaia di chilometri dalla tomba di Xin Zhui, ma ogni volta il liquido sembra mostrare caratteristiche differenti e uniche.
Attualmente, la mummia della Signora di Dai è ospitata presso il Museo Provinciale di Hunan. Migliaia di visitatori ogni anno accorrono da tutto il mondo per ammirare questa incredibile testimonianza del passato, una finestra sulla storia della Cina antica che conserva gelosamente molti enigmi ancora da svelare.