lunedì 22 aprile 2013

Trovati a Stonehenge reperti mesolitici di 9500 anni.





Una recente campagna di scavi ha rinvenuto nel sito archeologico di Stonehenge dei reperti risalenti ad oltre 7500 ac. dimostrando come quel sito fosse stato utilizzato oltre 5000 anni prima della costruzione della nota struttura megalitica.
Lo studio di foto aeree di una zona distante pochi chilometri da Stonehenge e nota col nome di "campo di Vespasiano" ha indotto alcuni ricercatori dell'università di Cambrige a indagare nella direzione che conduceva l noto sito megalitico.
E' stata rinvenuta una sorgente d'acqua (la più vicina a Stonehenge) e vicino alla sorgente tracce di presenza umana risalente al periodo mesolitico. 
I ricercatori hanno ipotizzato che la sorgente d'acqua fosse stata utilizzata da un gruppo di popolazione che avesse un nucleo abitativo vicino all'attuale Stonehenge. 
A questo punto son stati recuperati dei fondi che hanno consentito una piccola campagna di scavo nella piana del sito megalitico che ha dato i risultati sperati. 
Son stati rinvenuti diversi strumenti e manufatti di quasi 9000 anni, divetando di fatto il sito mesolitico piu' importante d'europa. I ricercatori però hanno il sospetto che questa sia solo la punta di un iceberg e sperano in altre ulteriori campagne di scavo.




Nasce "frammenti africani": Un viaggio lungo trent'anni.


Nasce "frammenti africani": Il nuovo supplemento di Scientia Antiquitatis.
Un viaggio lungo trent'anni.

Vai al supplemento:   Frammenti Africani





E no, perché ti auto-limiti? non è dedicato soltanto alla redazione di Scientia Antiquitatis. Non è. Non può esserlo. 
Che tu tenti di limitarlo oppure no, attribuendogli legittimamente i destinatari che più ritieni opportuno e giusto, lui se ne scorre invece come un fiume gonfio di emozioni, vola via libero nella sabbia del deserto insieme al vento caldo dell’Africa, brilla tanto negli sguardi ancestrali di quella gente - la prima inquilina del Mondo! - quanto in quelli nobilissimi dei suoi animali, così nobili che più li guardi e più ritieni semanticamente corretto definirli “fiere”. 
Sono immagini - di più, sussurri o grida - che vanno e toccano fin “dentro” tutte le persone nelle quali batte ancora un cuo
re; quelle nelle quali palpita qualcosa che a seconda del credo può prendere il nome di anima, spirito o altro ancora - aiutatemi voi, non sono mai stato forte in cose di religione! - ; insomma in tutti coloro che conservano l’innocenza infantile per potersi commuovere ancora e soprattutto l’orgoglio adulto di saper ammettere la propria commozione.
Grazie, infine, anche per l’intelligenza di aver dato  quel titolo, perché l’Africa può stare solo in mille e mille “frammenti”, dato che è troppo immensa e libera per poter essere racchiusa in un’immagine unica. 



Guido Mattioni








Trovata una pietra del Sole in in relitto britannico.





Nel 1592, una nave britannica affondò vicino all’isola di Alderney, nel canale della Manica, portando con sè uno strano oggetto: un piccolo cristallo squadrato. Anche se nascosto e consumato dopo 4 secoli in fondo al mare, la sua struttura precisa e la vicinanza all’attrezzatura della nave avevano attirato i sommozzatori. 
Una volta portata a terra, gli scienziati hanno pensato che il misterioso oggetto potesse essere un cristallo di calcite, che Vichinghi e altri europei avrebbero usato per navigare prima dell’introduzione della bussola. 
Uno studio precedente aveva mostrato che questi cristalli rivelavano la direzione della luce polarizzata intorno al Sole e, perciò, avrebbero potuto determinare la sua posizione nel cielo anche durante i giorni nuvolosi. Tali cristalli, ritrovati più volte in Islanda e in altre parti della Scandinavia, potrebbero essere le potenti “pietre solari” citate nelle leggende vichinghe. 
Dopo averla sottoposta a test meccanici e chimici, il team ha stabilito che il cristallo di Alderman è proprio uno spato d’Islanda (una varietà trasparente della calcite) e dunque potrebbe essere stato una sorta di bussola. Secondo i ricercatori, potrebbe aver aiutato l’equipaggio a correggere gli errori di una bussola magnetica. 

Oggi, simili cristalli di calcite sono usati dagli astronomi per analizzare le atmosfere dei pianeti extrasolari, forse stabilendo una nuova epoca di esplorazioni.







venerdì 19 aprile 2013

Giornata della Terra: c'è poco da festeggiare. Per mantenere stili di vita attuali servono 1,5 pianeti.









Il prossimo 22 aprile, per la 33esima volta nella storia, si celebra la Giornata mondiale della Terra e le notizie non sono entusiasmanti: il nostro pianeta non basta più per tutti noi, e la cattiva notizia è che non ne abbiamo un altro.
Se questa affermazione suona paradossale, tuttavia i dati mostrano che se i 7 miliardi di persone che popolano la terra conducessero gli stili di vita del cittadino medio occidentale, oggi un solo mondo non sarebbe sufficiente per tutti: sarebbero necessari 1,5 pianeti.
Nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà quota 9 miliardi; a quel punto, avremmo bisogno di ben 3 Pianeti per ospitarci tutti. Sono i dati diffusi, in occasione del World Earth Day, che avanza alcune proposte e soluzioni alla portata di tutti.
Tra queste, il modello alimentare mediterraneo emerge come possibile strada per ridurre l'impatto ambientale legato ai consumi alimentari, contribuendo al benessere delle persone e del Pianeta.

L’idea che l’umanità dovesse prestare più attenzione alla natura sulla quale poggia i suoi piedi sempre più pesanti maturò nel 1969, a seguito di uno dei primi veri disastri ambientali: la fuoriuscita di petrolio dal pozzo della Union Oil al largo di Santa Barbara, in California.
Il senatore Gaylord Nelson, dopo una visita con le scarpe nel greggio decise che era venuto il momento di agire, di reagire, come si stava facendo contro la guerra nel Vietnam. 
L’idea si diffuse a valanga nei college e nelle università e l’anno successivo, il 22 aprile, dilagò nelle piazze.
Poi, dal 1971 è arrivato anche il patrocinio delle Nazioni Unite, ma adesso, dopo tutti questi anni, e dopo tutti i disastri ambientali che si sono succeduti, c’è poco da celebrare. 
Meglio riflettere sull’urgenza di cambiare direzione a un modello di sviluppo che da tempo è uscito dai binari e sta continuando la folle corsa come un treno deragliato nella campagna.
Sulle sue carrozze viaggiano contraddizioni che prima o poi esploderanno, con buona pace dei viaggiatori che ci sono seduti sopra: dipendenza dagli idrocarburi, con danni sempre più devastanti per tirare fuori petrolio da ogni dove, e sfruttamento delle risorse alimentari dissennato, che divide il mondo tra chi non ha cibo e chi lo getta in pattumiera.
Mentre la Cina si sta accaparrando mezza Africa, continente sempre più nero, per procacciarsi terre da coltivare, nei Paesi industrializzati un terzo del cibo viene buttato via. Negli Usa, ogni giorno, finisce nelle pattumiere un quantitativo di frutta e verdura che equivale al peso di 19 Boeing 747: 3.300 tonnellate, chilo più, chilo meno.
Londra, in 24 ore, è capace di gettare una quantità di alimenti che riempirebbe 12 mila autobus a due piani e le famiglie inglesi scartano cibo ogni anno per un valore di 14 miliardi di euro: oltre il 70% è costituito da frutta e verdura.
In Ecuador, maggior produttore di banane del mondo, basta un graffio perché la merce venga scartata e di quella che attraversa l’oceano solo il 50% finisce nelle nostre pance. Sono queste alcune delle cifre contenute in uno dei quattro documentari inediti in Italia e distribuiti da Cubovision in occasione della Giornata della Terra.
L’idea che il nostro sia il migliore dei mondi possibili non regge di fronte a questo film, intitolato Global Waste: la società degli sprechi. Il Global Burden of Disease ha di recente reso noto che, per la prima volta nella storia, il numero totale di decessi di chi mangia troppo e male ha superato quello di chi mangia poco o niente.




L’ipertensione arteriosa, cresciuta dal 1990 al 2010 del 27%, è oggi la prima causa di morte in un mondo popolato da oltre 1,5 miliardi di persone obese, di fronte a 868 milioni di denutriti. In altre parole, per ogni essere umano affamato, ce ne sono due che mangiano troppo: se questo è il migliore dei mondi possibili, stiamo freschi.
Altro documentario, si cambia scena: Canada, dove le foreste della provincia dell’Alberta stanno scomparendo a causa dello sfruttamento estensivo del suolo bituminoso per l’estrazione del petrolio. È uno dei più grandi disastri ambientali degli ultimi anni: un’area grande come la Grecia progressivamente ricoperta da una miscela di idrocarburi, asfalto e fumi di scarico.
La linea di confine, dall’alto, è ben visibile: da una parte la natura, con i suoi colori rassicuranti, dall’altra il grigio uniforme creato da chi sta spianando il futuro. Per decenni l’estrazione del petrolio dalla sabbia bituminosa non è stata considerata un’attività redditizia, ma ora che il greggio si sta esaurendo, questa risorsa diventa una vera fortuna.
Il problema è che i procedimenti estrattivi producono un barile e mezzo di rifiuti per ogni barile di petrolio e generano emissioni di CO2 tre volte superiori a quelle derivanti dai pozzi petroliferi del Texas o dell’Arabia Saudita.
I primi a farne le spese sono i membri della popolazione Dene, indiani nativi che abitano queste terre: si ammalano di cancro con una percentuale superiore del 30% rispetto alla media nazionale. In compenso il Canada è diventato il primo fornitore di greggio degli Usa, per un importo di 20 miliardi l’anno e con una produzione che verrà incrementata in modo esponenziale.
L’industria petrolifera bituminosa, nonostante i ricercatori dell’Università dell’Alberta abbiano certificato l’inquinamento mortale di fiumi e laghi della zona, tra cui quello di Athabasca, non si ferma. Anzi: si stima che la produzione verrà triplicata entro il 2020, mentre avanza la costruzione dell’oledotto Keystone XL destinato ad alimentare le raffinerie del Texas con il bitume dell’Alberta.




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Namibia: Svelato il segreto dei "cerchi delle fate".






Le termiti della specie Psammotermes allocerus aumentano le proprie chance di sopravvivenza nel deserto della Namibia producendo i caratteristici “cerchi delle fate”, zone circolari di terreno arido circondate da erba perenne. Si tratta di una complessa opera ingegneristica: distruggendo la vegetazione effimera che compare dopo le piogge, le termiti creano le condizioni per una maggiore permanenza dell’umidità nel sottosuolo che favorisce anche la biodiversità locale.
Sono le termiti a creare i misteriosi “cerchi delle fate” (fairy circle), costituiti da due zone concentriche, un centro arido e una fascia di erba perenne intorno, che si osservano nel deserto delle coste sud-occidentali dell’Africa. 
A risolvere il mistero di queste formazioni, che possono durare decenni, è stato Norbert Juergens, ricercatore del Biocenter Klein Flottbek dell’Università di Amburgo, in Germania, dimostrando che queste peculiari condizioni del suolo sono determinate dalla presenza di termiti della specie Psammotermes allocerus. Queste termiti vivono nella sabbia e attraverso un’opera di “ingegneria del territorio” adattano l’ambiente alle proprie esigenze, incrementando indirettamente anche la biodiversità locale.
Le prime osservazioni dei cerchi, che si presentano lungo un stretta fascia di territorio che percorre il margine orientale del deserto della Namibia, dall’Angola fino alla parte nord occidentale del Sudafrica, hanno dato origine a numerose ipotesi. 

Tra le diverse possibilità considerate, la presenza di piante velenose oppure di insetti, quali formiche o appunto termiti, in grado di alterare localmente l’ecosistema del suolo, ma i test condotti sul campo non hanno mai dato indicazioni in grado di confermarle.






Juergens ha analizzato un'ampia base di dati su caratteristiche ambientali, biologiche e geografiche della zona, misurando inoltrepersonalmente per quattro anni il contenuto di umidità all’interno dei cerchi fino a 60 centimetri di profondità e raccogliendo dati per valutare la presenza di organismi associati ai cerchi in tutta l’area geografica interessata.
Ha così scoperto che l'unica specie di insetti associata alla quasi totalità dei cerchi studiati era Psammotermes allocerus, una specie di termiti che, a profondità che variano da pochi decimetri, costruisce nidi e gallerie sotterranee, riscontrate sua direttamente sotto l'area interna dei cerchi sia intorno a essa.
Juergens è riuscito a documentare che la caratteristica conformazione dei cerchi è frutto dell'opera delle termiti, escludendo che questi insetti abbiano solo il ruolo di colonizzatori di strutture preesistenti. Le due zone concentriche sono infatti frutto dell’attività degli insetti e sono funzionali alla loro sopravvivenza.




Le termiti rimuovono la vegetazione effimera che cresce dopo le precipitazioni annuali, impedendo la traspirazione dell’acqua; l'umidità così viene trattenuta più a lungo nel sottosuolo, favorendo la sopravvivenza degli insetti nell'ambiente desertico. 
Inoltre, quest'opera  favorisce indirettamente, nella fascia circolare intorno alla zona arida, la crescita di erba che, non trovando specie vegetali in competizione, può permanere per tutto l'anno.
La presenza di una zona di vegetazione perenne, che ha dimostrato di resistere per decenni anche alle più severe condizioni di siccità, inoltre aumenta considerevolmente la biodiversità locale, attraendo numerose specie di formiche, api, e piccoli mammiferi.






La mappa dei vertebrati da Wallace a oggi.






1876: Alfred Russel Wallace delinea in una mappa la distribuzione degli animali sulla Terra. Ora una nuova ricerca aggiorna l'opera del naturalista inglese, che non disponeva degli strumenti della filogenetica, confermando la maggior parte delle sue intuizioni.
Un censimento del mondo degli animali, così come sono distribuiti sui cinque continenti: ci pensò per la prima volta Alfred Russel Wallace, lo scienziato che contemporaneamente a Darwin immaginò la teoria dell'evoluzione. Nel 1876, Wallace pubblicò in due volumi The geographical distribution of animals; with a study of the relations of living and extinct faunas as elucidating the past changes of the Earth's surface. Oggi un team internazionale di ricercatori, guidato da Ben Holt e Jean Philippe Lessard, ha aggiornato la mappa del naturalista inglese. 
La nuova mappa, fa il punto sulla posizione geografica e la parentela reciproca di 21.037 specie. Gli strumenti della genetica hanno permesso di arricchire il panorama proposto da Wallace con mezzi che ai suoi tempi non esistevano. Oltre a considerazioni tassonomiche, Wallace stesso aveva disegnato la sua mappa anche in base alle parentele ancestrali tra le specie. Le stesure successive non ne hanno più tenuto conto fino a oggi. Ma la relazione tra i diversi animali, spiegano Holt e Lessard, è essenziale per raggrupparli in modo il più possibile oggettivo. 
La mappa di Wallace, disegnata in base ai dati raccolti prevalentemente su mammiferi, ripartiva il mondo in sei diverse aree zoogeografiche, corrispondenti all'incirca ai continenti. Il nuovo planisfero di Lessard e Holt raffina la suddivisione in undici aree, composte a loro volta da un totale di venti regioni distinte. La relazione filogenetica è stata stimata per anfibi, uccelli e mammiferi non marini. La principale novità rispetto alla mappa di Wallace è che l'area Paleartica, tradizionalmente corrispondente al continente eurasiatico, si spinge fino a contenere la parte settentrionale del Nord america.





I vertebrati che popolano la Siberia, infatti, sono risultati filogeneticamente più simili ad alcune specie americane che ad ltre che abitano l'area Paleartica.
le stime, inoltre, suggeriscono che l'area Sharo-Araba sia un'area di transizione tra quella Afrotropicale a quella Cino-Giapponese.
Alcune isole a est del Borneo, come Sulawesi, che per wallace erano parte dell'area australiana, secondo i rilievi di Lessard e Holt sono contenute nella regione Orientale.
Ma come si fa a stabilire quanto un animale è simile a un altro? Holt e Lessard hanno quantificato la differenza tra le specie con una vera e propria misura (pairwise phylogenetic beta diversity metrics, pβ). 
Questo indice, che ha consentito la suddivisione nelle venti regioni, ha anche permesso di stabilire numericamente fino a che punto la popolazione animale di ogni regione sia "esclusiva", ovvero quanto le caratteristiche degli animali che abitano una certa area si avvicinino ad essere uniche. 
Con tanto di classifica finale: l'Australia, con una pβ media di 0,68, è l'area con i vertebrati "più unici", seguita dal Madagascar (0,63). 





Queste cifre sono il risultato di confronti effettuati anche separatamente per anfibi, mammiferi e uccelli. I mammiferi sono la classe più varia tra quelle studiate: da soli danno luogo a 34 regioni, mentre sia uccelli sia anfibi ne generano solo 19. Curiosamente, le diversificazioni dei mammiferi e degli uccelli risultano correlate tra loro più fortemente rispetto a quella degli anfibi. Come osservano gli autori, questo dato, riscontrato anche nelle precedenti analisi zoogeografiche, può essere spiegato da una diversificazione precoce nella storia evolutiva degli anfibi rispetto alle altre due classi, o a una loro maggiore sensibilità alle condizioni ambientali. 
Lo studio della distribuzione degli esseri viventi è propedeutico alla ricerca nel campo dell'ecologia, dell'evoluzione e della conservazione delle specie. Non è detto, ammettono gli autori, che i confini disegnati dalla nuova ricerca siano definitivi: potranno subire variazioni quando saranno disponibili i dati filogenetici su rettili, invertebrati e piante. Tuttavia l'introduzione di indici che descrivono numericamente la somiglianza tra le specie costituisce un approccio solido per ogni futuro approfondimento.





Presentato il volume "Tomba di Nerone. Toponimo. comprensorio e zona urbanistica di Roma Capitale".





Presentato a Formello, presso la sede dell’Archeo Club d’Italia, in una cerimonia commemorativa dell’archeologo recentemente scomparso Gaetano Messineo del quale, tra l’altro ne era presidente, «Tomba di Nerone» Toponimo, comprensorio e zona urbanistica di Roma Capitale, è un volume che per la preziosa cura di Fabrizio Vistoli, coordinatore scientifico della collana Fors Clavigera, Nuova Cultura, va oltre la didattica e la ricerca archeologica e si arricchisce di inediti particolari che legano la particolare attenzione rivolta da Gaetano Messineo, non solo all’area nord di Roma, ma anche a tutti coloro che ne hanno condiviso le esperienze scientifiche.
La tutela per i Beni Culturali è passata, negli anni, attraverso fasi e personalità eccellenti che hanno voluto significarsi nell’attenzione alle vaste aree di interesse archeologico, urbanistico e monumentale di Roma e dell’Italia in genere che di beni, in questo senso, ce ne ha donati con estrema generosità. Ed è con la stessa generosità d’animo che l’archeologo e accademico Gaetano Messineo ha voluto dare il proprio contributo alle scienze archeologiche ed alla conservazione dei beni culturali. Scomparso prematuramente nel 2010 egli ha avuto il merito di raccogliere intorno alla sua figura studiosi e ricercatori che con lui hanno condiviso esperienze di lavoro e di studio, coordinati dall’archeologo Fabrizio Vistoli, che ha raccolto e curato gli Scritti tematici in Memoria di Gaetano Messineo, per le Edizioni Nuova Cultura, Fors Clavigera, per la quale presiede il comitato scientifico.




Un volume celebrativo dell’uomo e dello studioso, dell’archeologo e del funzionario, impegnato in quella faticosa opera che è la ricerca delle ragioni del presente attraverso la continua ricerca sul territorio, sulle aree che sono grembo della nostra cultura e del nostro essere, intorno a quelle preziosità rare che sono l’intima unione tra passato e presente. Un passato a tratti oscuri ed incerto, un passato a cui Messineo ha voluto dare ampio spazio e risalto in tutti quelli che sono i suoi scritti, citati e raccolti in un repertorio bibliografico nell’opera curata da Fabrizio Vistoli, accanto ad una serie di contributi vergati da studiosi italiani un cui si esaminano con taglio interdisciplinare ed impostazione diacronica, diversi aspetti di quell’antica proprietà fondiaria dell’Agro Romano chiamata un tempo «Casal Saraceno» (dalla famiglia Saraceni, che l’acquistò prima del 1313) o «di S. Andrea » (da una chiesetta seicentesca ancora esistente dedicata a quel santo), ma conosciuta anche con il nome di «Sepoltura» ed oggi «Tomba di Nerone» sulla via Cassia, per via della presenza, in quel luogo, di un sarcofago romano decorato con temi guerreschi che il popolo ha da sempre impropriamente attribuito al sanguinario imperatore. La scelta di questo settore del suburbio cittadino come argomento degli scritti attraverso i quali onorare la memoria del benemerito studioso siciliano non è, ovviamente, casuale. In primo luogo, essa risponde alla volontà di non scostarsi troppo dagli ambiti territoriali all’interno dei quali egli si mosse e operò per più di un ventennio, in forza del suo incarico ispettivo nei ranghi della Soprintendenza archeologica di Roma (SAR); secondariamente perché chi scrive, già nel lontano 2002, era stato esplicitamente messo a partito della sua intenzione di approfondire, quanto prima, taluni aspetti della topografia storica della via Cassia (ed in modo particolare quelli, che riteneva oltremodo trascurati, relativi al VVII miglio antico della Consolare); terzo, perché proprio a Messineo, come chiarirò meglio oltre, si deve la primissima impalcatura strutturale della poderosa monografia che oggi vede la luce: monografia che egli aveva pensato non solo come puntuale e fruttuoso continuum del libro-dissertazione sulla tenuta dell’Acqua Traversa (2005), ma anche come necessario vademecum all’impegno dell’Amministrazione pubblica, organi ministeriali ed istituzioni cittadine, per la tutela e la valorizzazione dei Beni culturali di questa zona periferica della Capitale (2008-2010).




Il volume nasce dunque da una profonda condivisione degli studi e delle continue ricerche su un’area del suburbio romano che attraverso la ricerca sistematica è ora al centro di un dibattito che fa della sua riscoperta e della sua tutela il centro, anche e soprattutto in memoria di chi, come Gaetano Messineo, ha dedicato parte del suo lavoro a quell’area a nord di Roma che è tra le principali sedi di interesse per l’archeologo siciliano.All’archeologia di Roma e del suo suburbio, si legge ancora nelle note introduttive di Vistoli, è dedicata la parte più consistente degli scritti dello studioso. Tra questi si segnalano, per originalità e rigoroso metodo adottato, i contributi strettamente legati alla via Flaminia (ovvero alle testimonianze archeologiche e monumentali da lui rintracciate nel tratto della Consolare tra III e XIII miglio antico), nonché le singole monografie incentrate, rispettivamente, sull’arco e sul borgo fortificato di Malborghetto (1989, 1998), sul celebre complesso residenziale di Livia Drusilla ad Gallinas Albas (1984, 2001) ed infine sulla monumentale tomba dei Nasoni e sulla sua ricca decorazione pittorica (2000) [2]
Un’esperienza di studio e di lavoro che ha dunque il pregio di essere stata curata e raccolta in un unico volume che analizza il comprensorio, il monumento ed infine si arricchisce di approfondimenti tematici che vuole essere celebrativa di Gaetano Messineo e consegnare la sua memoria a coloro che ne raccoglieranno l’eredità e saranno mossi dallo stesso ardore scientifico ed umano.



Le nascite sincronizzate degli animali del Grande Nord.




Sulle isole dell'arcipelago delle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, alcuni eventi meteorologici estremi hanno l'effetto di sincronizzare i ritmi di vita di tutte le popolazioni di erbivori che vi vivono, e di riflesso anche quelli di un loro predatore, la volpe artica. 
Questa sincronizzazione riguarda i tassi di mortalità delle differenti specie nelle diverse stagioni, ma anche il periodo di nascita dei piccoli. 
I meccanismi attraverso cui si realizza questa sincronizzazione sono stati chiariti da un gruppo di ricercatori diretti da Åshild Ø. Pedersen.  
In sintesi, la sincronizzazione si realizza quando sulla coltre di neve cade della pioggia che, gelando, serra in una morsa la vegetazione, riducendo notevolmente la possibilità di foraggiamento degli erbivori. 
E' dunque il clima che determina, sia pure indirettamente, le dinamiche delle popolazioni di tutti i vertebrati delle estreme regioni settentrionali. 
Dato che si prevede che questi fenomeni siano destinati a diventare più frequenti nelle regioni circumpolari, è verosimile che ne risentiranno diverse caratteristiche degli ecosistemi.






Mondo sommerso. Il recupero della barriera corallina lontana dall'uomo.




Anche le barriere coralline più isolate hanno buone possibilità di riprendersi dal fenomeno dello sbiancamento. E' questo il risultato di uno studio sullo Scott Reef, una barriera corallina situata a 250 chilometri dalle coste dell'Australia occidentale, che nel 1998 aveva subito un drammatico fenomeno di sbiancamento a causa di un innalzamento anomalo della temperatura.
Lo sbiancamento si verifica quando le popolazioni di zooxantelle, microalghe con cui i polipi dei coralli hanno un rapporto di simbiosi, sono decimate o distrutte in seguito allo stress ambientale legato all'aumento della temperatura o dell'acidità delle acque e/o all'uso di tecniche di pesca distruttive.
Finora si riteneva che quando una barriera corallina subisce un tracollo imponente, l'unica speranza di ripresa fosse la ricolonizzazione da parte di larve provenienti da altre barriere vicine. 

Il nuovo studio, ha invece dimostrato che anche pochissimi individui sopravissuti sono in grado di far rifiorire la barriera. 
Ma a una condizione: che sia protetta da disturbi provenienti dalle attività dell'uomo.





giovedì 18 aprile 2013

Natura: Il segreto del geco con le dita bagnate.

La particolare capacità del geco di aderire alle foglie anche quando sono bagnate dipende dalla composizione chimica delle superfici: critiche sono quelle idrofile, su cui l'acqua forma un film sottile che mette in crisi la prensione del piccolo rettile, mentre nel caso delle superfici idrofobe, come le foglie delle foreste tropicali ricoperte da sostanze cerose, l'area di contatto con le dita rimane pressoché invariata.




L'abilità del geco di aderire alle superfici umide varia in funzione della loro composizione chimica. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" firmato da Alyssa Y. Stark, del dipartimento di scienza dei polimeri dell'Università di Akron, in Ohio, che ha analizzato la capacità di adesione a quattro superfici umide e asciutte di sei diverse specie tropicali del piccolo rettile.
L'adesione è il fenomeno per cui due oggetti posti a contatto tendono a rimanere attaccati. La forza che attrae tra loro le due diverse superfici è in realtà la manifestazione macroscopica delle forze attrattive di Van der Walls che agiscono a livello microscopico tra le molecole.
La comprensione sempre più dettagliata di queste forze è fondamentale nel campo industriale per la fabbricazione delle colle, ma interessa anche biologi e zoologi. La straordinaria capacità del geco di rimanere aggrappato a superfici anche completamente lisce, come il vetro, ha stimolato da decenni la curiosità dei ricercatori che hanno studiato la meccanica di adesione delle sue zampe nei suoi dettagli nano- e microscopici, ma sempre in condizioni asciutte. 

Si sa dunque assai poco di come se la cavi questo rettile in condizioni umide, che sono quelle si trovano molto spesso in natura.




Nel corso della ricerca, l'apparato sperimentale progettato da Stark consentiva di muovere la superficie su cui si trovava il geco fino a quando l'animale non iniziava a scivolare. 
La misurazione del valore di soglia di questa sollecitazione forniva il valore della forza tangenziale che il geco è in grado di applicare alla superficie per rimanervi adeso.
Quando la stessa superficie veniva bagnata con l'acqua, l'effetto sulla forza adesiva cambiava, in funzione della “bagnabilità” della superficie stessa. Nel caso delle superfici idrofile, come il vetro, su cui le gocce di acqua tendono a perdere la loro forma e a distribuirsi su un'ampia superficie, il film sottile di acqua che rimaneva tra la superficie e il piede del geco diminuiva l'adesione.
Al contrario, su superfici idrofobe, e quindi a bassa bagnabilità, come quelle ricoperte da sostanze cerose delle piante tropicali, le aree di contatto con le dita del geco rimanevano asciutte, e l'adesionecomplessiva non veniva influenzata dalla presenza di acqua.
Secondo gli autori, i risultati hanno notevoli implicazioni per la progettazione di superfici che consentano di mantenere un alto grado di adesione reciproca anche quando sono bagnate.




 

Egitto: Scoperto uno dei porti più antichi mai ritrovati







Forse si tratta di una delle scoperte archeologiche più interessanti degli ultimi anni. Un gruppo di ricercatori ha portato alla luce quello che si pensa essere il porto più antico mai trovato in Egitto, insieme ad una delle più antiche collezioni di documenti su papiro.
Si pensa che il porto risalga al 4500 a.C, costruito durante il regno di Cheope, faraone della IV dinastia. La costruzione si trova sulle rive del Mar Rosso, nella zona di Al-Wadi Jarf, a circa 150 chilometri a sud di Suez. A fare l'entusiasmante scoperta è stato un gruppo di archeologi dell'Istituto francese per gli studi archeologici.
Il sito, precede di oltre 1000 anni qualsiasi altra antica struttura portuale conosciuta nel mondo, secondo quanto spiegato il capo dell'equipe di studiosi, Pierre Tallet, docente all'Università della Sorbona di Parigi. Secondo quanto diffuso dai comunicati ufficiali delle autorità egiziane, gli archeologi hanno trovato una serie di bacini ed una serie di ancore realizzate in pietra lavorata.
Inoltre, il team ha portato alla luce un'intera collezione di quaranta papiri che descrivono nel dettaglio la vita quotidiana degli antichi egizi durante il 27° anno del regno di Cheope.

Secondo i ricercatori, il porto rappresentava uno dei più importanti snodi commerciali dell'antico Egitto, centro nevralgico per l'esportazione del rame e di altri minerali dalla penisola del Sinai.
Il sito fu esplorato per la prima volta nel 1823 da uno dei pionieri dell'egittologia moderna, il britannico Sir John Garner Wilkinson, che nella sua esplorazione trovò un sistema di gallerie scavate nella roccia a poche miglia dalla costa.
Egli credette che fossero catacombe. “Il sito fu poi descritto dai piloti francesi che lavoravano nel Golfo di Suez intorno al 1950, ma nessuno si rese conto che nascondeva i resti di un antico porto faraonico”, spiega Tallet.
Solo 2011, Pierre Tallet, insieme all'archeologo Gregory Marouard della University of Oriental Institute di Chicago, il topografo Damien Laisney del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica, e i dottorandi Aurore Ciavatti e Serena Esposito presso l'Università della Sorbona, hanno cominciato a concentrarsi in primo luogo sulla parte più visibile del sito: le gallerie descritte da Wilkinson.

Gli scavi hanno portato alla luce trenta di queste gallerie, che in media misurano 65 metri di lunghezza, 10 metri di larghezza e 7 metri di altezza.
Le gallerie venivano utilizzate per smantellare le barche non più utilizzabili per i traffici commerciali e presentano un sofisticato sistema di chiusura realizzato con grossi blocchi di calcare su cui è inciso il nome di Cheope.







Secondo il resoconto pubblicato da Discovery News, all'interno delle gallerie, il team ha trovato diversi frammenti di antiche barche, corde e ceramiche risalenti ai primi anni della IV dinastia.
Tre gallerie contenevano una serie di vasche di stoccaggio che probabilmente servivano come stazionamento per le barche. Inoltre, le esplorazioni subacquee ai piedi del molo, hanno permesso di scoprire 25 ancore di epoca faraoniche.
A circa 200 metri dal mare, gli archeologici hanno trovato i resti di un vecchio edificio, nel quale erano conservate ben 99 ancore: “Su alcune di esse sono incisi i geroglifici, probabilmente per indicare il nome della barca a cui appartenevano”, ha supposto Tallet.
Ma la scoperta più entusiasmante è stata quella di centinaia di frammenti di papiro all'interno delle gallerie di stoccaggio. In particolare, dieci di questi risultano molto ben conservati. “Sono i papiri più antichi mai ritrovati”, spiega Tallet.
Molti di essi descrivono come l'amministrazione centrale, sotto il regno di Cheope, inviasse cibo (sopratutto pane e bitta) ai lavoratori coinvolti nelle spedizioni egiziane in partenza dal porto. Tra questi c'è un papiro particolarmente intrigante: si tratta del diario di un certo Merrer, uno dei funzionari coinvolti nella costruzione della Grande Piramide.

Da quattro fogli ritrovati e numerosi frammenti, i ricercatori sono riusciti a ricostruire la sua attività quotidiana per più di tre mesi. “Merrer riferisce principalmente dei suoi numerosi viaggi verso la cava di calcare di Turah per prelevare i blocchi per la costruzione della piramide”, ha detto Tallet.
“Anche se non impareremo nulla di nuovo sulla costruzione della Piramide di Cheope, il diario fornisce per la prima volta una panoramica su questo tema”, conclude l'archeologo francese.